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UGANDA, AFRICA…UN CAPPELLO, DUE UOMINI E DUE MODI DI PENSARE.


Un fuoristrada corre a velocità sostenuta su una strada in Africa, la strada sembra quella di un film, rossa, polverosa e piena di buche. Nella macchina un europeo e un africano, l’europeo guida e, anche se cerca di schivare tutte le buche che può schivare, dopo qualche ora di minuziosa ricerca del passaggio meno difficile si arrende, comincia ad accontentarsi di schivare solo le voragini che danneggerebbero l’auto irreparabilmente. Ovviamente la macchina sobbalza, sferraglia, saltella, frena, accelera, si sposta in continuazione a destra e a sinistra, si inclina…l’europeo guida con l’emisfero sinistro del suo cervello mentre con il destro continua a sfiorare pensieri volatili e specula sull’ecologia del paesaggio che attraversa.

Ad un certo punto il cappello antisole dell’africano che è sul cruscotto dalla parte del guidatore scivola verso il lato del passeggero e cade ai suoi piedi, lui lo raccoglie e lo rimette davanti a se sul cruscotto da cui il capello dopo due tre buche ricade (quello del passeggero non è uno di quei cruscotti che fungono anche da porta oggetti, è un pezzo di plastica liscia in leggera pendenza, nessuna formula fisica può trattenere il cappello nella sua posizione per più di trenta secondi con quelle vibrazioni. Il cappello, ovviamente, dopo due buche ricade, il passeggero africano si china e lo rimette esattamente li. Questa esatta successione di eventi si riproduce per altre tre o quattro volte, abbastanza per attrarre l’emisfero destro dell’europeo che già alla seconda volta vorrebbe dire, “ma scusa non puoi mettere il cappello nel porta oggetti vicino al freno a mano?” però l’europeo è ospite, è carico di teoria sulla mediazione culturale e decide di non proferire verbo e si sforza di capire.

Continuano le buche, continua la polvere e inesorabilmente il cappello continua a scivolare e cadere, altrettanto inesorabilmente il passeggero africano lo raccoglie e lo mette esattamente li, esattamente dov’era, senza spazientirsi, senza accennare un minimo disturbo: si piega in avanti, raccoglie il cappello con la mano destra e lo mette sul cruscotto. L’europeo decide dopo la 7 volta di continuare a contare le volte in cui il cappello cadrà (la macchina fa troppo rumore non si può fare una conversazione, i pensieri volatili si auto annichiliscono e l’ecologia del paesaggio stancherebbe chiunque dopo 9 ore di macchina). L’europeo continua a contare e conta fino a trentacinque. Già dopo i trenta comincia a porsi una serie di domande socio etnografiche…prima dei trentasei sbotta. Al diavolo la mediazione culturale, al diavolo lo spazio vitale altrui: “…ma scusa…perché non metti il cappello nel porta oggetti? insomma…lo hai raccolto trentacinque volte e continua a cadere, non sarebbe più facile che lo mettessi in un posto da cui non cada ogni due minuti?

L’africano sorride, dice solo “sorry” prende il cappello, gentilmente lo sbatte fuori dal finestrino per disimpolverarlo e lo ripone lento nel porta oggetti. L’europeo è contento: il suo emisfero destro può ricominciare a pazzeggiare.

Le buche e la polvere dopo un po’ finiscono ed entrambi, arrivati all’hotel, dopo una doccia, si ritrovano per cena. L’europeo però vuole tornare alla questione del cappello, ci mancherebbe, trentacinque volte, trentacinque piegamenti, trentacinque opportunità perse per riporlo nel porta oggetti…insomma bisogna vederci più chiaro: “Scusa, ma perché oggi hai continuato a raccogliere il cappello invece di metterlo nel porta oggetti? “ l’africano trasale come se per lui la cosa si fosse svolta in un era lontana…mi guarda esterrefatto ma benevolo, sorride, e mi dice (con la tipica faccia bonaria che fanno tanti africani quando devono rispondere ad una domanda un po’ strampalata di un europeo)…”non lo so perché…” poi fa una lunga pausa e continua “ma è davvero importante?”… poi si blocca di nuovo (queste pause infinite possono rendere nervoso anche il più educato francescano)  e poi chiude con “…e comunque…è il MIO cappello!”

Io non rispondo, rido fragorosamente per coprire un po’ di imbarazzo e ordino una birra per me e una per il mio saggio compagno di viaggio.

Credo che da quando sono qui in Uganda e in tutti i miei precedenti soggiorni in questo meraviglioso continente siano infiniti gli aneddoti come questo in cui mi rendo conto dell’univocità del pensiero occidentale, della nostra necessità di esteriorizzare la nostra opinione, di classificare, di irrigidire, di voler imporre, anche involontariamente, il nostro schema di pensiero.

Da qualche tempo però sto capendo che non è la bulimica ricerca delle differenze fra il mio schema di pensiero e quello di cui sono ospite che mi farà capire come non fare più delle figuracce come questa. Lentamente sto maturando l’idea che l’unico modo per entrare in contatto con queste genti che mi accolgono sempre con un sorriso è solo l’esplorare in punta di piedi i sottili ma solidissimi tratti di somiglianza fra me e chi la pensa in un altro modo. Sto imparando a cercare proprio in quella fitta schiera di luoghi comuni a cui veniamo messi di fronte ad ogni incontro con il diverso.

Questo cambiamento di approccio sta rendendo il mio soggiorno in Uganda molto meno frustrante di precedenti soggiorni in altri paesi africani e mi godo con moltissima più ironia e rilassatezza la coltivazione del mio più grande vizio: la Curiosita.

Credo che uno dei motivi per cui mi innamoro sempre di più di questo continente è che se ci si vuole stare bene bisogna reimparare a ridere e soprattutto a ridere di se stessi, è una ginnastica tutt’altro che facile ma il risultato è garantito.

di Dario Ferroni.

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