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Incontri siberiani, diario di un viaggio in Russia

di Giuliano Prandini.


Sull’aereo delle Czeck Airlines, che da Praga ci porterà a Mosca, mi si siede accanto Julia, una giovane artista e fotografa che ritorna nella sua città per visitare la nonna ammalata. Mette nella tasca della poltrona di fronte una bottiglia di whiskey, è costretta a volare spesso per lavoro ma le fa paura e allora cerca aiuto nell’alcol. Alla fine del viaggio avrà bevuto metà bottiglia e una parte me l’avrà versata pure addosso durante una turbolenza. Quando sa che andiamo verso il Lago Bajkal in Siberia mi dice dello zio pilota dell’Aeroflot e ridacchia sugli aerei “kamikaze” che vi operano. Parla senza interruzione per tutte le due ore, effetto dell’alcol?, e mi mostra sullo smartphone alcuni dei suoi lavori.

Da Mosca per Irkutsk, oltre cinque ore di volo, viaggiamo comodamente con l’Aeroflot, le apprensioni di Julia non sono giustificate. Seduto accanto Oleg, lo chiameremo così, sta rileggendo Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Entriamo subito in sintonia quando sa che la nostra prima visita a Mosca l’avevamo iniziata allo Stagno del Patriarca (Patriarshij Prud). È un chimico bielorusso che si è laureato e lavora a Mosca, diretto anche lui al Lago Bajkal. È venuto cinque volte in Italia con una delle tante associazioni che continuano ad accogliere ragazzi bielorussi ed è rimasto in contatto con la famiglia piemontese che lo ha ospitato. E anche lui, come tanti giovani russi, vuole emigrare in America. Accusa il presidente bielorusso Lukashenko di essere un dittatore e aggiunge che le due condanne a morte per l’attentato nella metropolitana di Minsk dello scorso anno sono state eseguite dopo un processo che tutti definiscono una montatura. Il “Moscow Times” denuncia gli arresti di oppositori che gridavano “Una Russia senza Putin!” durante una recente manifestazione a Mosca vicino alla centralissima Piazza Pushkin. Durante le elezioni presidenziali russe, vinte da Putin, Oleg ha votato per l’oligarca Michail Prochorov, giunto terzo. Al suo rientro mi scriverà preoccupato per la severità della condanna a due anni di carcere inflitta a tre componenti del gruppo punk Pussy Riot per aver intonato una canzone di protesta nella cattedrale Cristo Salvatore di Mosca. Amnesty International definirà la sentenza un ulteriore “duro colpo alla libertà di espressione in Russia”.

A 5.185 km da Mosca, Irkutsk è il capoluogo dell’omonima regione (oblast); fondata dai cosacchi nel 1652, è conosciuta come la “Parigi della Siberia” per le pregevoli chiese, gli edifici neoclassici, le antiche case in legno. All’interno del monastero Znamenskij le tombe dei decabristi ricordano il tentativo insurrezionale contro l’assolutismo zarista di ufficiali dell’esercito imperiale a San Pietroburgo nel dicembre 1825; sedata la rivolta molti furono deportati in Siberia. La pricipessa Trubeckaja, che seguì il marito in esilio, è sepolta qui con i tre figli; poco distante l’obelisco con strumenti nautici dedicato a Grigorij Selikov, il “Colombo russo”, che alla fine del diciottesimo secolo navigò nel Pacifico settentrionale e sognò un impero fino alla California spagnola. All’ingresso del monastero è stato recentemente innalzato un discusso monumento all’ammiraglio Kolkak, capo del governo bianco in Siberia, giustiziato dai bolscevichi a Irkutsk nel 1920.

Prendiamo la transiberiana per Ulan Ude e decidiamo di fare il viaggio di notte in terza classe. Siamo incuriositi, vogliamo vedere se, come dicono, i russi si comportano in libertà e poi Colin Thubron nel suo In Siberia aveva scritto di cuccette piene di mercanzie a poco prezzo, di finestrini sudici, di puzza di urina, di pesce crudo e sudore, di ragni neri che scambia terrorizzato per pericolose zecche Ixodes. Le cuccette sono pulite, i viaggiatori riservati, le inservienti (provodnizy) efficienti; solo un giovane buriato grassotto in boxer che va ripetutamente in bagno attenua la nostra delusione.

Arriviamo nella capitale della Repubblica autonoma dei Buriati di primo mattino. Di origine mongola, convertiti al buddismo da missionari mongoli e tibetani, i buriati che avevano partecipato alle scorrerie di Gengis Khan, costituiscono ora un quarto della popolazione. L’attrattiva principale della città è l’immensa testa di Lenin alta otto metri nella grande piazza centrale; passiamo accanto al Teatro dell’Opera, percorriamo la Via Lenin che ci richiama l’Arbat di Mosca, raggiungiamo la cattedrale Odigitria e poi il coloratissimo mercato buriato.

Percorrendo strade quasi mai asfaltate e piene di buche, piste più che strade e sarà così per tutto il viaggio, al di fuori delle grandi città la Russia sembra ferma al Medioevo, raggiungiamo il villaggio dei Vecchi Credenti di Tarbagataj dove ci aspetta padre Sergej. Lungo il percorso l’autista di origine mongola getta del riso fuori dal finestrino e mormora invocazioni per propiziarsi gli spiriti. Nella seconda metà del diciasettesimo secolo gruppi di dissidenti religiosi si opposero in Russia alle modifiche di quasi insignificanti pratiche liturgiche volute dalla gerarchia ortodossa. E’ assurdo, ma per il rifiuto delle riforme ecclesiastiche patirono persecuzioni, torture, furono uccisi e in tanti trovarono rifugio in Siberia, solo in Buriazia sono circa 200.000. Padre Sergej ci guida nel museo etnografico che ha allestito, ci sono samovar, costumi tadizionali, arnesi da lavoro e anche resti di mammut, poi ci conduce alla chiesa; fuori un libro in pietra ricorda l’arrivo nel 1725. Non vuole essere registrato, non ha dimenticato le persecuzioni staliniste. Gli chiedo dei rapporti con i buddisti, ottimi mi dice, loro stanno per conto loro e noi pure; qui nemmeno si sa che cosa sia l’ecumenismo e sorrido immaginando i miei amici focolarini accolti qui come extraterrestri.

Andiamo all’Ivolginsky Datsan, centro del buddismo siberiano aperto nel 1945; vediamo i templi dai colori vivaci, gli stupa, i leoni in gesso, le sculture, gli oggetti rituali, le case in legno dei monaci. Collegato al Datsan nel 1991 fu aperta l’università buddista «Dashi Choinkhorling». Entriamo in un tempio, ascoltiamo le preghiere dei monaci, osserviamo le offerte di monetine, latte, biscotti; su una parete la fotografia del Dalai Lama venuto più volte in visita. Il luogo appare trascurato, i monaci sembrano sereni, ma distratti, mi sento estraneo all’ambiente.

La sera ceniamo in un tipico ristorante in yurta (tenda mongola) di Ulan Ude, dove incontriamo una delegazione austriaca di Ybbsitz con il sindaco. La giovane cameriera si incuriosisce e mi chiede perchè siamo venuti in Buriazia, se andremo al lago; studia cardiologia, non riesco a dimenticare di essere stato un insegnante e non trovo di meglio che dirle una frasetta imparata a memoria “ucitza, ucitza i isciò raz ucitza”studiare, studiare, e ancora studiare…”. Ma questo è Lenin, esclama!

(continua)

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